Il creditore può pubblicamente “denunciare” i propri debitori scrivendo i loro nomi e gli importi non pagati in un post su Facebook.
È infatti legittimo il diritto di critica che si esercita nel comunicare a tutti la morosità altrui.
A dirlo è stato il Tribunale di Roma in una recentissima e rivoluzionaria ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio d’urgenza (la fase di reclamo ha confermato il provvedimento emesso in primo grado). Il post con cui un imprenditore (assistito dall’avvocato Fulvio Sarzana di S. Ippolito) ha accusato un cliente di non averlo pagato rimane – almeno per il momento – pubblicato sul profilo del creditore in quanto costituisce esercizio di un legittimo diritto di critica e non è diffamatorio perché rispetta i requisiti di verità, pertinenza e continenza, i tre presupposti, cioè, entro i quali è possibile anche riportare fatti contrari alla reputazione delle persone senza cadere nell’illecito penale.
Infatti, il mancato pagamento da parte del cliente è emerso incontestabilmente in giudizio; le opinioni espresse non sono risultate né offensive né volgari e non hanno indotto ad accostamenti suggestivi; l’interesse pubblico alla diffusione della notizia è indubbio.
Oltretutto nel caso di specie, il giudice non ha mancato, per mera completezza, di evidenziare che il cliente moroso non è neanche riuscito a provare, se non tramite generiche allegazioni, in cosa sarebbero concretamente consistiti i danni all’onore e al decoro personale che assumeva di aver subito.
È principio ormai consolidato che, affinché la divulgazione di notizie o commenti asseritamente lesivi dell’onore e della reputazione di terzi possano considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca/critica, devono ricorrere le seguenti condizioni:
1) verità dei fatti esposti: in pratica, il credito deve essere realmente esistente e non presunto o contestato. Nel giudizio, quindi deve emergere incontestabilmente l’inadempimento del debitore all’obbligo di pagamento dei confronti del creditore, derivante dal rapporto commerciale intercorrente tra le parti. Il mancato pagamento delle fatture è dato incontrastato;
2) interesse pubblico alla conoscenza del fatto;
3) correttezza formale dell’esposizione: non bisogna, come appena detto, usare espressioni offensive o volgari o accostamenti suggestivi.
L’ordinanza in commento non troverà tutti d’accordo. Si pensi al fatto che, per giurisprudenza consolidata, è vietato all’amministratore, affiggere sulla bacheca posta nell’androne delle scale i nomi dei morosi che non hanno pagato le quote condominiali.
E non c’è dubbio che Facebook non sia nient’altro che una bacheca.
In passato la Cassazione (Cass. sent. n. 39986/2014) ha stabilito che la comunicazione contenente i nominativi dei condomini morosi affissa al portone condominiale, anche in presenza di un effettiva morosità degli stessi condomini, costituiva una condotta diffamante, non sussistendo alcun interesse da parte dei terzi alla conoscenza di quei fatti, anche se veri.
Si deve quindi escludere l’esimente del diritto di cronaca e di critica e ciò perché – sebbene la scriminante in questione sia ipotizzabile non solo per l’attività di giornalisti o scrittori, ma anche rispetto al comune cittadino – occorre sempre valutare la rilevanza della diffusione della notizia che deve essere funzionale al corretto svolgimento delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali.
In tale direzione, deve rilevarsi che la diffusione della comunicazione attraverso la sua affissione al portone d’ingresso, essendo potenzialmente conoscibile da un numero indeterminato di persone, integra il delitto di diffamazione per essere carente, al di fuori del ristretto ambito condominiale, un qualsiasi interesse alla conoscenza della circostanza relativa alla morosità di alcuni condomini.
Un caso simile a quello appena deciso dal Tribunale di Roma è stato deciso in modo opposto dalla Cassazione (Cass. sent. n. 1269/2015): è stato ritenuto colpevole un uomo che aveva caricato in una rubrica su Youtube dal titolo “Facce da schiaffi” il nome del suo debitore reo di non avergli saldato la fattura. In questo caso, però, è evidente che l’accostamento dei fatti a considerazioni di carattere personale chiaramente denigratorie e suggestive non rientrerebbe nella fattispecie trattata dal tribunale di Roma nell’ordinanza citata.