A cura dell’Avv. Massimo Simbula.
I fatti sono noti agli esperti di privacy: ieri 13 maggio 2014 la Corte di Giustizia Europea ha stabilito con sentenza relativa alla causa C-131/12 in essere tra un cittadino spagnolo, Mario Costeja González e Google Inc., che i gestori dei motori di ricerca sono titolari di tutti i dati personali indicizzati e che, per questo, qualsiasi cittadino europeo può chiedere a qualsiasi motore di ricerca, di rimuovere ogni collegamento tra il proprio nome e cognome ed una determinata pagina web, persino se quest’ultima è da considerarsi legittimamente pubblicata.
Detto ciò, esplode il delirio mediatico sui principali social network.
Eppure ritengo la sentenza poco interessante per vari motivi tra cui il possibile tramonto del web ampiamente dimostrato dall’interesse di Google verso altri e più innovativi business che vanno dai dispositivi mobili (orologi, occhiali, etc.) alla robotica e domotica (Nest, Boston Dynamics, etc.).
In realtà, a fronte di quanto indicato dagli estensori della sentenza la quale non affronta a mio avviso le reali problematiche sottese al diritto all’oblio e sopratutto non analizza gli strumenti che in modo efficace possano tutelare il diritto alla privacy, si registra una posizione decisamente più prudente ed equilibrata di Google, la quale afferma, attraverso un suo portavoce, che “si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’Advocate General Ue e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni”
La sentenza in commento è in parte pilatesca poichè:
a) riconosce ai cittadini la facoltà di rivolgersi direttamente ai motori di ricerca, senza imporre a questi ultimi modalità organizzative per la gestione dei reclami o tempi minimi per evadere le risposte;
b) riconosce comunque ai cittadini il diritto di ricorrere all’autorità competente (Garante Privacy o Tribunale competente per territorio) e attendere un verdetto che potrebbe portare ad una decisione favorevole all’utente che chiede la rimozione dei dati dalle pagine del motore di ricerca senza peraltro avere chiara la conseguenza in caso di inadempimento (dovrebbe essere infatti il giudice del caso a deciderlo volta per volta) e sopratutto i tempi tecnici per la rimozione che potrebbero non essere facilmente determinabili neanche da una commissione di esperti incaricati.
La sentenza, a onor del vero, sancisce in modo inequivocabile l’obbligo per il provider di intervenire di fronte ad una legittima richiesta di rimozione.
D’altra parte i vari Garanti Privacy in Europa hanno armi spuntate perchè le sanzioni che possono emettere non creano particolari problemi ai grandi motori di ricerca. E’ vero che sono allo studio modifiche alle normative europee in tema di privacy con possibili sanzioni calcolate in percentuale sul fatturato del motore di ricerca e questa sicuramente è una misura che potrebbe creare non pochi problemi ai providers.
E gli estensori della sentenza non potevano fare diversamente: il diritto alla privacy e lo stesso diritto all’oblio, per quanto non codificato è stato ampiamente riconosciuto nel tempo.
Il diritto alla privacy – la cui nozione è nata negli Stati Uniti sul finire del XIX secolo con il famoso caso Warren-Brandeis (cfr. l’articolo “The right to privacy”, Harward Law Review, ne lontano 1890) per tutelare l’individuo da ingiustificate stigmatizzazioni sociali – deve essere inteso, innanzitutto, come diritto di “essere lasciati in pace” (cd. diritto all’oblio) e di non subire discriminazioni di alcun genere.
Il tema quindi risale al 1890 e non a ieri.
Che il diritto alla privacy comprendesse anche il diritto di ciascuno alla protezione ed al controllo dei propri dati personali e della circolazione dei medesimi e un concetto piuttosto datato. La sentenza della Corte di Giustizia non poteva non prenderne atto.
Ove fosse necessario si ricorda che l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7/12/2000, poi recepiti dagli artt. II-67 e II-68 della Costituzione europea, nonché la Direttiva 12/07/2002 n. 58 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche ribadiscono in maniera chiara e inequivocabile questo concetto.
Se quindi la Corte di Giustizia, di fronte ad una ipotesi di violazione di tale diritto alla privacy nella più sfumata forma del cd. diritto all’oblio, chiede ai gestori del trattamento di tali dati (in tal caso i motori di ricerca) di rispettare tale diritto e rimuovere i collegamenti nocivi per la privacy dell’istante, quale è esattamente la novità?
Sicuramente la rilevanza dell’organo che ha pronunciato tale sentenza rappresenta una novità.
Mentre concordo pienamente con la posizione di Google: una sentenza deludente in molti punti, poco innovativa, che non affronta i temi tecnici sottesi alla gestione delle cancellazioni (e non potrebbe d’altronde) e che sopratutto non prende minimamente in considerazione l’abuso dei social network e el web in genere da parte degli stessi utenti, che in gran parte dei casi, caricano imprudentemente informazioni relative alla loro vita personale, affettiva, patrimoniale e quant’altro, salvo poi rendersi conto che le troppe informazioni rese disponibili entrano nel grande circo barnum della rete e quindi anche nel calderone dei motori di ricerca.
L’articolo più interessante che ho trovato è stato quello di Luca De Biase il quale rileva correttamente, e devo dire pacatamente, come ci si trovi di fronte la necessità di arginare l’automatismo dell’algoritmo di Google con sistemi di controllo manuale che non potranno che favorire la moderazione dei sistemi di intrusione nelle vite degli altri.
Ho anche trovato interessante il punto di Guido Scorza.
Per quanto mi riguarda, ho avuto modo di affrontare il delicato tema del diritto all’oblio nel 2006 contribuendo alla redazione di una proposta di legge riferita ad una particolare categoria di soggetti deboli: coloro che stanno scontando o che hanno scontato una condanna penale e, più in generale, coloro che sono stati sottoposti a procedimento penale, in esito al quale sono stati assolti.
Lo so che in tema di giacobinismo pentastellato certe cose non si possono neanche scrivere sulla rete sotto la pena della gogna mediatica beppegrilliana.it, ma credo che valga la pena ricordare il tema.
La protezione dei dati personali di detti soggetti – intesa come diritto all’oblio in ordine all’intera vicenda sostanziale e processuale sottesa alla sentenza di condanna (o anche di assoluzione) pronunciata nei loro confronti – non solo riveste una notevole importanza in sé, ma si pone come imprescindibile presupposto per l’esercizio di tutta una serie di altri diritti che ad essa si riconnettono.
In primis, per quanto riguarda in particolare i condannati, il diritto al reinserimento sociale degli stessi.
Come noto, il problema della finalità della pena ha formato oggetto di un ampio dibattito.
Sul punto pare opportuno evidenziare come il diritto all’oblio delle persone condannate assume particolare rilievo ai fini della funzione della pena applicata.
Negli ordinamenti moderni appare evidente come la pena abbia una funzione sia retributiva che (soprattutto) educativa.
La stessa Carta Costituzionale italiana prevede espressamente all’articolo 27, secondo comma, che “le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena, in sostanza, oltre ad avere una chiara finalità retributivo-preventiva, persegue anche lo scopo di modificare, in senso sociale, la personalità del reo.
Proprio in vista del conseguimento di tali obbiettivi, tra l’altro, il legislatore si è posto il problema di disciplinare la proporzionalità edittale della pena all’effettiva gravità del reato commesso (principio retributivo) e in considerazione delle esigenze specialpreventivo-risocializzative del soggetto.
La rieducazione deve essere considerata come concetto di relazione, rapportabile alla vita sociale: essa postula un ritorno del soggetto nella comunità.
Il concetto di rieducazione va, quindi, inteso come solidaristica offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni obbiettive perché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale (si veda, sul punto, Fernando Mantovani – “Diritto Penale” – Ed. CEDAM 1992, pagg. 755 e segg.).
Orbene, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, accade molto spesso che un soggetto, in passato sottoposto a procedimento penale, subisca continue aggressioni alla sua privacy attraverso la periodica rievocazione (e spesso la definitiva cristallizzazione) di fatti ormai risalenti nel tempo e che non hanno più alcun interesse pubblico.
A propria difesa, i giornalisti, i blogger i redattori di contenuti web in genere che pubblicano informazioni relative a soggetti che hanno già scontato una pena o che stanno finendo di scontarla (o che addirittura, all’esito del processo, sono stati assolti) invocano il diritto, costituzionalmente riconosciuto (art. 21 Costituzione italiana), della libertà di pensiero ed allo stesso si ricollegano i providers che tra l’altro si difendono sostenendo che non possno effettuare un controllo capilare di ogni contenuto e la eventuale sistematica rimozione in caso di richieste poichè l’intero sistema alla base del motore di ricerca soccomberebbe di fronte agli elevati costi e tempi tecnici necessari per gestire questo monitoraggio e intrevento “censorio”.
Certamente la stampa e internet non possono essere soggetti ad autorizzazioni o censure, ma ciò nel rispetto dei diritti fondamentali della persona e, nel particolare caso del condannato, della finalità della stessa pena scontata (anch’essa, come detto, di rilevanza costituzionale).
Il “Codice Privacy” contiene dettagliate norme destinate a proteggere i dati sensibili delle persone fisiche e giuridiche.
Segnatamente, l’allegato A del predetto Codice reca specifiche disposizioni per il trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica.
L’art. 6 del citato allegato, rubricato “Essenzialità dell’informazione”, statuisce, al primo comma, che “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”.
Inoltre, il successivo art. 12, sotto la rubrica “Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali”, prevede, al secondo comma, che “il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all’art. 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del codice di procedura penale relativo alle iscrizioni nel casellario giudiziale è ammesso nell’esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all’art. 5 il quale stabilisce che il giornalista garantisce il diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.
Meritano, sul punto, menzione alcune pronunce giurisdizionali.
In particolare, il Tribunale di Roma, nel condannare il quotidiano “Il Messaggero”, ha statuito che “la ripubblicazione, dopo circa trent’anni dall’accaduto, di un grave fatto di cronaca nera, con fotografia del reo confesso, a fini di mera promozione commerciale, costituisce diffamazione a mezzo stampa ed obbliga l’editore del quotidiano al risarcimento del danno morale, trattandosi di notizia priva di pubblico interesse e per ciò inidonea ad integrare gli estremi del legittimo esercizio del diritto di informazione e di cronaca” (Trib. Roma, 15.05.1995 – N.N. c. Il Messaggero ed.).
In una successiva sentenza, lo stesso Tribunale capitolino ha stabilito che “la riproduzione di vicende attinenti alla vita privata del condannato è suscettibile di produrre un danno ingiusto al diritto all’oblio del familiare in difetto di un interesse pubblico attuale alla conoscenza di tali vicende” (Trib. Roma, 20.11.1996 – Vulcano e altri c. Rai TV e altri).
Inoltre, la Suprema Corte ha chiarito che “la divulgazione a mezzo stampa di notizie che arrecano pregiudizio all’onore e alla reputazione altrui deve, in base al diritto di cronaca, considerarsi lecita quando ricorrono tre condizioni, la verità oggettiva della notizia pubblicata, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza) e la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza)” (Cass. Civ. Sez. III, n. 3679/1998).
Tale ultima sentenza, nella motivazioni, ha precisato che “il diritto di cronaca può poi risultare limitato dall’esigenza dell’attualità della notizia, quale manifestazione del diritto alla riservatezza, intesa quale giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente pubblicata, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione” (cit. Cass. Civ. Sez. III, n. 3679/1998).
Tutti questi temi possono essere agevolmente applicabili anche a internet con le dovute cautele del caso.
D’altra parte, la salvaguardia della dignità della persona e la protezione dei dati di carattere personale trovano fondamento già nella Costituzione europea in tema di tutela della dignità umana.
In particolare, l’articolo 61 statuisce che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, mentre il successivo articolo 68, in tema di protezione dei dati personali, stabilisce che “Ogni persona ha il diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”.
Tali principi, ampiamente recepiti dalla citata normativa nazionale, sono altresì ribaditi dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui articolo 8 stabilisce, al primo comma, che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare …”.
Lo stesso Garante per la Protezione dei Dati Personali, nella Relazione del 2004 (si veda Relazione 2004 Garante Privacy, pagg. 53-54), ripresa poi dalla Relazione annuale del 2006, all’esito dell’istruttoria di diverse segnalazioni e di alcuni reclami, ha ribadito che la pubblicazione di dati giudiziari ex art. 4, comma 1, lett. e) del “Codice Privacy” è ammessa, pur senza il consenso dell’interessato, ma “nel presupposto dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico” (si veda art. 137, comma 3, del cit. Codice ed art. 12 dell’allegato A al medesimo Codice, recante il c.d. codice di deontologia per l’attività giornalistica). La sussistenza del carattere di essenzialità dell’informazione deve essere valutata necessariamente caso per caso, nel contesto dei fatti narrati (art. 6 codice di deontologia per l’attività giornalistica), come già specificato nel documento del Garante Privacy del 6 maggio 2004, inviato all’Ordine Nazionale dei Giornalisti.
Si evidenzia, poi, che sulla questione è intervenuto anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con una Dichiarazione ed una Raccomandazione n. R(2003)13 del 10 luglio 2003.
La Dichiarazione, innanzitutto, richiama alcuni principi fondamentali in materia di informazioni fornite dai media in relazione a procedimenti penali, fra i quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto ad avere un giusto processo, ma anche la tutela della vita privata e familiare, ed invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei principi stabiliti nella Raccomandazione (2003)13. Ciò comporta, in particolare, l’esigenza di tutelare dignità, sicurezza e privacy di tutti i soggetti coinvolti in un procedimento penale (imputati, vittime, familiari, testimoni) ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La Raccomandazione, poi, enumera, in 18 punti, quelli che, a giudizio del Consiglio d’Europa, devono essere i principi ispiratori dell’attività giornalistica in merito ai procedimenti penali. I Ministri tentano un bilanciamento fra diritti di rango paritario, quali il diritto di cronaca e il diritto alla privacy, entrambi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ribaditi in numerosi atti anche da parte del Consiglio d’Europa.
Da un lato si riconosce, infatti, il diritto del pubblico ad essere informato adeguatamente attraverso i media e il diritto dei giornalisti di ottenere informazioni accurate. Dall’altro, si ricorda che i media hanno il dovere di rispettare la privacy delle persone coinvolte in procedimenti penali (Principio 8), nonché alle vittime, ai testimoni ed ai familiari di persone sospettate, imputate o condannate.
Ciò comporta anche la necessità di tenere conto delle possibili conseguenze derivanti dalla rivelazione di informazioni che consentano l’identificazione di tali categorie di persone.
Degne di nota sono, in questa sede, le disposizioni relative al c.d. diritto all’oblio.
Il Comitato dei Ministri specifica, infatti, nella Raccomandazione che ai giornalisti dovrebbe essere consentito di avere contatti con persone che scontano pene detentive in carcere, nella misura in cui ciò non pregiudichi la corretta amministrazione della giustizia, i diritti dei detenuti e del personale penitenziario o la sicurezza dell’istituto di detenzione (Principio 17).
Infine, nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa, il diritto alla privacy previsto dal sopra citato articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo viene esteso fino a comprendere il dovere di tutelare l’identità di chiunque abbia scontato una condanna giudiziaria.
Segnatamente, il Principio 18 della Raccomandazione in esame, rubricato “Informazioni dei media relative a sentenze di condanna”, statuisce che “Al fine di non pregiudicare il reinserimento sociale di soggetti che hanno scontato sentenze di condanna penale, il diritto di proteggere la privacy previsto dall’articolo 8 della Convenzione [europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali] dovrebbe includere il diritto di proteggere l’identità di tali soggetti in relazione ai reati precedentemente commessi, a meno che i condannati diano il proprio consenso alla divulgazione delle informazioni che li riguardano oppure questi, e il reato da loro commesso, continuino o tornino ad essere di interesse pubblico”.
Orbene, nonostante l’imponente impianto normativo nazionale e comunitario innanzi citato, i soggetti che hanno avuto la sventura di essere stati sottoposti, in passato, ad un procedimento penale sono molto spesso oggetto di aggressione alla loro privacy da parte dei media che, attraverso carta stampata, internet e televisione, divulgano informazioni ormai prive di un interesse pubblico meritevole di tutela, ma che, spesso, vengono utilizzate ai soli fini di mera promozione commerciale e ridotte a veri e propri “gossip”.
Sono sempre più numerosi i casi portati dinanzi all’autorità giudiziaria e al Garante per la protezione dei dati personali.
Quest’ultimo, addirittura, in relazione ad una serie di casi di pubblicazione su internet dei dati giudiziari (tra cui sentenze di condanna) relativi a soggetti italiani, si è trovato nell’impossibilità di procedere contro Google, la quale, infatti, ha rinviato le legittime lamentele dell’Authority italiana alla sede centrale californiana del provider, un problema questo che comporta quindi aspetti tecnico-legali che determinano un inevitabile incremento delle spese legali e di notifica atti per la gestione del relativo procedimento.
La disponibilità del provider americano a costituire un tavolo tecnico con l’Authority italiana per affrontare il problema della cancellazione dei dati giudiziari e di quelli relativi a condanne penali, pubblicati (e cristallizzati) su pagine internet, non ha allo stato risolto, né certamente risolverà, in modo definitivo, il problema.
Infatti, a fronte della copiosa normativa in materia, appare evidente come, ad oggi, non vi sia alcuna disposizione che tuteli, in modo chiaro e preciso, il cd. diritto all’oblio, ossia che limiti efficacemente – per giornali, TV e web provider – l’attuale possibilità di pubblicare indiscriminatamente informazioni personali afferenti a soggetti che hanno scontato (o stanno scontando) condanne penali in relazione a vicende risalenti nel tempo o che, ancorché assolti, hanno soltanto avuto la sventura di essere stati, con riferimento alle medesime vicende, sottoposti a procedimento penale.
Si ritiene, infatti, che, in ossequio ai principi costituzionali (nazionali e comunitari) innanzi esposti ed alla citata Raccomandazione del Consiglio europeo del 2003 (Principio 18), si renda necessario predeterminare – una volta per tutte e salve tassative eccezioni – il periodo di tempo oltre il quale un soggetto sottoposto a procedimento penale maturi il diritto a non vedere più il proprio nome “accostato” alla detta vicenda processuale.
Si noti, del resto, che nell’ordinamento penale vigente esistono già istituti che, nella medesima ottica specialpreventiva della descritta tutela del c.d. diritto all’oblio, attribuiscono rilievo al decorso di un periodo di tempo predeterminato ex lege per riconoscere (o restituire) al condannato diritti (o facoltà).
Si pensi all’istituto della riabilitazione (artt. 178-179 c.p.), con cui, in presenza di determinati presupposti (tra cui, appunto, il decorso di cinque/dieci anni dall’esecuzione o, comunque, dalla estinzione della pena principale), si estinguono le pene accessorie e gli effetti penali della condanna: in altri termini, allo scopo di non pregiudicare il reinserimento sociale del reo, gli vengono “restituite” alcune delle facoltà giuridiche che, in conseguenza della condanna, erano state escluse o compresse.
Ritengo che questo sia il primo tema vero da affrontare con riferimento al diritto all’oblio.
Sarebbe invece opportuno riporre maggiore attenzione sulle nuove problematiche privacy sollevate dalla robotica e dai dispositivi mobili piuttosto che da una sentenza che, ferma restando l’autorevolezza dell’organo che l’ha emanata, si riferisce a temi legali vecchi, non propone soluzioni di alcun tipo, ed è web-centrica e quindi (forse) già superata.