Sembra proprio che questa sia l’estate del copyright. Non solo in Italia dove ha fatto ingresso in modo maldestro l’AGCOM con il suo regolamento in materia del diritto d’autore ma anche in molti altri paesi del mondo sembra esserci una crescente attenzione sul tema.
In particolare negli Stati Uniti il tema è oggetto di ampio dibattito anche nel comitato presso l’House Judiciary Committee competente a svolgere una serie d funzioni tra cui quelle di carattere interpretativo su norme, regolamenti e organi giudiziari.
Già in passato (2013) il tema del copyright e del licensing in relazione alla musica, argomento di grande attualità visto il grande successo di applicazioni quali Spotify, è stato affrontato dal Department of Commerce degli Stati Uniti, in un Libro Verde a cura della Internet Policy Task Force.
Il punto di fondo che spinge ora gli artisti a sollevare un problema di maggiori revenues è la sostanziale differenza tra il valore da loro apportato alle società che distribuiscono i loro prodotti artistici via internet e tramite applicazioni per dispositivi mobili, rispetto alle royalties che percepiscono in relazione al numero di volte che le loro canzoni vengono scaricate dagli utenti (Aggregate Tuning Hours).
Attualmente sarebbe impensabile convincere Spotify a riconoscere ai suoi artisti non solo semplici royalties ma vere e proprie stock option parametrate in relazione alle ore della loro musica scaricate.
Ci si chiede se le ripetute pressioni dei gruppi di artisti presso l’House of Judiciary Committee porteranno ad evoluzioni normative che equilibrino le forze in campo considerato che gran parte del successo delle applicazioni e dei siti che distribuiscono musica digitale è certamente dovuto proprio al grande lavoro degli artisti stessi.