E’ una decisione a mio avviso piuttosto criticabile quella adottata dal Garante Privacy con provvedimento del 31 marzo 2016 in relazione a dei seppur gravi fatti commessi da un terrorista in Italia durante i cosiddetti anni di piombo.
In sintesi, il Garante ha stabilito che per reati particolarmente gravi prevale l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie.
E’ il principio sancito dal Garante privacy nel dichiarare infondato il ricorso di un ex terrorista che chiedeva la deindicizzazione di alcuni articoli, studi, atti processuali in cui erano riportati gravi fatti di cronaca che lo avevano visto protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80.
L’interessato che, tra detenzione e misure alternative ha finito di scontare la pena nel 2009, si era rivolto in prima battuta a Google chiedendo la rimozione di alcuni url e dei suggerimenti di ricerca che vengono visualizzati dalla funzione di “completamento automatico” digitando il nominativo nella stringa di ricerca (ad es., inserendo nome e cognome dell’interessato compare la parola terrorista).
Di fronte al mancato accoglimento delle sue richieste da parte di Google, l’interessato ha presentato un ricorso al Garante sostenendo di non essere un personaggio pubblico ma un libero cittadino al quale la permanenza in rete di contenuti così risalenti nel tempo e fuorvianti rispetto all’attuale percorso di vita, cagiona gravi danni dal punto di vista personale e professionale.
Nel dichiarare infondato il ricorso, l’Autorità ha rilevato che le informazioni di cui si chiede la deindicizzazione fanno riferimento a reati particolarmente gravi, che rientrano tra quelli indicati nelle Linee guida sull’esercizio del diritto all’oblio adottate dal Gruppo di lavoro dei Garanti privacy europei nel 2014, reati per i quali le richieste di deindicizzazione devono essere valutate con minor favore dalle Autorità di protezione dei dati, pur nel rispetto di un esame caso per caso.
Secondo il Garante, poi, le informazioni hanno ormai assunto una valenza storica, avendo segnato la memoria collettiva. Esse riguardano una delle pagine più buie della storia italiana, della quale il ricorrente non è stato un comprimario, ma un vero e proprio protagonista.
Inoltre, nonostante il lungo lasso di tempo trascorso dagli eventi l’attenzione del pubblico è tuttora molto alta su quel periodo e sui fatti trascorsi, come dimostra l’attualità dei riferimenti raggiungibili mediante gli stessi url.
Il Garante ritenendo quindi prevalente l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie in questione, ha dichiarato infondata la richiesta di rimozione degli url indicati dal ricorrente ed indicizzati da Google.
L’Autorità ha inoltre dichiarato non luogo a provvedere sulla rimozione dei suggerimenti di ricerca nel frattempo eliminati da Google e su un url di un articolo non più indicizzabile da quando l’archivio del quotidiano che lo aveva pubblicato è divenuto una piattaforma a pagamento.
Cioè in buona sostanza, l’organo che dovrebbe garantire la tutela della privacy in Italia ha deciso (seppure con un provvedimento apparentemente privo di vizi logici) che un uomo, oggi libero, dovrà rimanere per sempre agli occhi di tutti (di tutti quelli che cercano su internet, quindi quasi tutti ma in tutto il mondo) come il noto terrorista e nessuno potrà mai levargli quella etichetta anche se questa persona ha in qualche modo pagato come previsto dalla legge per i gravi fatti commessi e anche se i suoi figli, i suoi nipoti, i suoi parenti, saranno sempre etichettati come parenti di un terrorista grazie ad una semplice ricerca su internet.
Nessuno vuole dare giudizi morali sulla gravità di un fatto e sulle conseguenze, ma i tecnici del diritto devono ragionare in un altro modo.
Innanzitutto la funzione della pena e della reintegrazione sociale del condannato.
E in secondo luogo l’applicazione di una nuova pena, strisciante e forse più temibile del carcere, poiché potenzialmente illimitata e invasiva, estesa a persone che hanno solo un legame di parentela con il condannato: la gogna.
La protezione dei dati personali dei condannati – intesa come diritto all’oblio in ordine all’intera vicenda sostanziale e processuale sottesa alla sentenza di condanna pronunciata nei loro confronti – non solo riveste una notevole importanza in sé, ma si pone come imprescindibile presupposto per l’esercizio di tutta una serie di altri diritti che ad essa si riconnettono.
In primis, per quanto riguarda in particolare i condannati, il diritto al reinserimento sociale degli stessi.
Come noto, il problema della finalità della pena ha formato oggetto di un ampio dibattito.
Sul punto pare opportuno evidenziare come il diritto all’oblio delle persone condannate assume particolare rilievo ai fini della funzione della pena applicata.
Negli ordinamenti moderni appare evidente come la pena abbia una funzione sia retributiva che (soprattutto) educativa.
La stessa Carta Costituzionale italiana prevede espressamente all’articolo 27, secondo comma, che “le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La pena, in sostanza, oltre ad avere una chiara finalità retributivo-preventiva, persegue anche lo scopo di modificare, in senso sociale, la personalità del reo.
Proprio in vista del conseguimento di tali obbiettivi, tra l’altro, il legislatore si è posto il problema di disciplinare la proporzionalità edittale della pena all’effettiva gravità del reato commesso (principio retributivo) e in considerazione delle esigenze specialpreventivo-risocializzative del soggetto.
La rieducazione deve essere considerata come concetto di relazione, rapportabile alla vita sociale: essa postula un ritorno del soggetto nella comunità.
Il concetto di rieducazione va, quindi, inteso come solidaristica offerta di opportunità, cioè come creazione delle condizioni obiettive perché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale.
D’altra parte, la salvaguardia della dignità della persona e la protezione dei dati di carattere personale trovano fondamento già nella Costituzione europea in tema di tutela della dignità umana.
In particolare, l’articolo 61 statuisce che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, mentre il successivo articolo 68, in tema di protezione dei dati personali, stabilisce che “Ogni persona ha il diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”.
Tali principi, ampiamente recepiti dalla citata normativa nazionale, sono altresì ribaditi dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui articolo 8 stabilisce, al primo comma, che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare …”.
Ciò comporta, in particolare, l’esigenza di tutelare dignità, sicurezza e privacy di tutti i soggetti coinvolti in un procedimento penale (imputati, vittime, familiari, testimoni) ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Infine, nella Raccomandazione R(2003)13) del 10 luglio 2003 del Consiglio d’Europa, il diritto alla privacy previsto dal sopra citato articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo viene esteso fino a comprendere il dovere di tutelare l’identità di chiunque abbia scontato una condanna giudiziaria.
Segnatamente, il Principio 18 della Raccomandazione in esame, rubricato “Informazioni dei media relative a sentenze di condanna”, statuisce che “Al fine di non pregiudicare il reinserimento sociale di soggetti che hanno scontato sentenze di condanna penale, il diritto di proteggere la privacy previsto dall’articolo 8 della Convenzione [europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali] dovrebbe includere il diritto di proteggere l’identità di tali soggetti in relazione ai reati precedentemente commessi, a meno che i condannati diano il proprio consenso alla divulgazione delle informazioni che li riguardano oppure questi, e il reato da loro commesso, continuino o tornino ad essere di interesse pubblico”.
In conclusione, l’auspicio, al di la del caso di specie, è che il Garante Privacy non avvalli la tendenza alla cristallizzazione di condanne su internet che, per quanto giuste e per quanto rientranti nella libertà di informazione e nella attualità della stessa in considerazione della particolare gravità dei fatti,potrebbero invece danneggiare la più importante libertà del singolo e giustificare, nel tempo, la non rimozione da parte dei provider di condanne minori generando così un corto circuito informativo e penale che non darebbe possibilità al condannato di reinserirsi nella società o di trovare un nuovo lavoro, danneggiando così anche l’immagine delle persone che gli stanno intorno.
Fra 200 anni forse il Garante Privacy non ci sara’ piu’. Ma per tutti, quel terrorista degli anni di piombo italiano sarà sempre un terrorista e i suoi figli e nipoti e pro-nipoti, saranno i figli, nipoti e pro-nipoti di un terrorista degli anni di piombo e non di un padre o di un nonno.
Tutti devono pagare per il danno che hanno commesso ma se poi hanno pagato secondo le norme che un ordinamento civile si è dato, i condannati devono poter recuperare e reintegrarsi senza trovarsi di fronte un nemico fluido, immateriale, presente ovunque che ricorderà a tutti, nel tempo, il suo passato.