[:it]Non si può invocare il diritto all’oblio per vicende giudiziarie di particolare gravità e il cui iter processuale si è concluso da poco tempo. In questi casi prevale l’interesse pubblico a conoscere le notizie. Con questa motivazione di cui al provvedimento del 6 ottobre 2016, il Garante privacy ha dichiarato infondata la richiesta di deindicizzazione di alcuni articoli presentata da un ex consigliere comunale coinvolto in un’indagine per corruzione e truffa.
Una vicenda iniziata nel 2006 e conclusasi (per lui) nel 2012 con sentenza di patteggiamento e pena interamente coperta da indulto. Di fronte al no di Google di accogliere le sue richieste di deindicizzazione, l’ex consigliere aveva presentato un ricorso al Garante chiedendo la rimozione di alcuni url che risultavano digitando il suo nome e cognome nel motore di ricerca e che facevano riaffiorare l’indagine in cui era rimasto coinvolto. A suo dire, non ricoprendo più incarichi pubblici e operando in un settore privato, la permanenza in rete di notizie, risalenti a circa dieci anni prima e ormai prive di interesse, gli avrebbero arrecato un danno all’immagine, alla vita privata e all’attuale attività lavorativa.
Nel rigettare la richiesta, l’Autorità, alla luce delle Linee guida dei Garanti europei, ha rilevato che sebbene il trascorrere del tempo sia la componente essenziale del diritto all’oblio, questo elemento incontra un limite quando le informazioni di cui si chiede la deindicizzazione siano riferite a reati gravi e che hanno destato un forte allarme sociale. Le richieste vanno quindi valutate con minor favore, anche se devono essere analizzate caso per caso.
Nella circostanza specifica nonostante fosse trascorso un certo lasso di tempo dai fatti riportati negli articoli, ha sottolineato l’Autorità, meritava considerazione il fatto che la vicenda giudiziaria si fosse definita solo pochi anni prima. Oltre a ciò, alcuni url riattualizzavano la notizia richiamandola in articoli relativi ad una maxi inchiesta sulla corruzione pubblicati fino al 2015 e la loro relativa attualità dimostra l’interesse ancora vivo e attuale dell’opinione pubblica.
E’ interessante notare come il provvedimento vada (anche se parzialmente e con le dovute differenze del caso) in contrasto con quanto stabilito dal Tribunale di Milano, con la sentenza n. 10374/2016 del 28.09.2016.
Il Tribunale ha stabilito che, indipendentemente dalla portata offensiva di un articolo, se con il trascorrere del tempo i dati personali ivi trattati non risultano più aggiornati e pertinenti, l’interesse pubblico viene meno e deve essere riconosciuto il diritto di ottenere dal motore di ricerca la deindicizzazione del relativo link.
Questa la vicenda: nel 2010 su un quotidiano nazionale era stato pubblicato un articolo che un’alta rappresentante della pubblica amministrazione riteneva lesivo della propria reputazione, in quanto vi si ipotizzava che il suo ruolo fosse dovuto alla raccomandazione di un importante politico e non alle sue qualità. In seguito alla reazione dell’interessata, era stata stipulata una transazione in forza della quale l’articolo era stato rimosso dall’archivio online del quotidiano. Tuttavia, due anni più tardi, il “pezzo” era stato ripubblicato in un blog e compariva tra i primi risultati di una ricerca attraverso Google con il nome della protagonista.
La donna aveva chiesto in primo luogo la rimozione al motore di ricerca, che però l’aveva negata. Della questione, quindi, era stato investito il Garante per la protezione dei dati personali che, tuttavia, aveva dichiarato infondato il ricorso ritenendo insussistente il diritto all’oblio in quanto il fatto riguardava un’importante figura delle istituzioni e le notizie concernevano proprio il ruolo di quest’ultima.
Avverso tale provvedimento l’interessata ha proposto ricorso al giudice civile chiedendo di annullarlo e, per l’effetto, di ordinare al motore di ricerca la deindicizzazione del link e la cancellazione delle tracce digitali di tale ricerca.
Nell’accogliere le domande della ricorrente il Tribunale muove innanzitutto dalla nota sentenza Google Spain, in cui è stato puntualizzato che l’attività del motore di ricerca è qualificabile come trattamento dei dati personali e che dunque, a determinate condizioni, anch’esso è obbligato a rimuovere dall’elenco dei risultati i link che rimandano a contenuti di terzi, qualora non più attuali. L’incidenza e l’invasività delle informazioni veicolate dal motore di ricerca giustificano – prosegue la sentenza – la notevole protezione dell’interessato, il cui diritto a mantenere il controllo sui propri dati fa premio sulla libertà di informazione a meno che le notizie, per il ruolo ricoperto nella vita pubblica dal soggetto, pur non più recenti, abbiano ancora un effettivo rilievo.
Il Tribunale indica i diritti che si “fronteggiano”: da un lato la libertà di iniziativa economica e libertà di informazione e dall’altro la tutela dei dati personali, oltre al diritto dell’individuo alla «dis-associazione del proprio nome da un dato risultato di ricerca» o meglio al «ridimensionamento della propria visibilità telematica» definito come un aspetto “funzionale” del diritto all’identità personale da tenere distinto dal diverso diritto all’oblio.
Alla luce di tali considerazioni il Tribunale conclude in modo opposto rispetto al Garante. Il giudice, infatti, osserva che quelli contenuti nell’articolo sono dati non completi, non aggiornati e non pertinenti. Il giornalista, infatti, riferiva le opinioni di un paio di economisti rese subito dopo il concorso vinto dalla ricorrente e rimaste isolate; nessun elemento circa la poca correttezza del concorso era stato addotto; laddove invece l’interessata aveva provato di avere una profonda professionalità specifica; la donna, inoltre, ricopriva tuttora la importante carica senza che mai più fossero stati esposti dubbi sulle sue competenze e, non ultimo, il “pezzo” era stato cancellato dall’archivio informatico del giornale che l’aveva inizialmente pubblicato.
Dunque, conclude il giudice, anche se i dati sono considerabili in astratto attuali in ragione del ruolo ancor oggi occupato, gli stessi non presentano più interesse pubblico in concreto, con la conseguenza che in tal caso deve prevalere il diritto dell’individuo a non restare legato all’immagine incapace di rappresentarlo correttamente.
In conclusione, seguendo una strada già battuta dalle corti internazionali e nazionali, e comunque la si pensi in materia, la decisione in commento ha il merito di aggiungere un altro tassello nella individuazione del corretto bilanciamento tra diritto all’identità digitale e diritto alla libertà di informare e di essere informati.[:en]Non si può invocare il diritto all’oblio per vicende giudiziarie di particolare gravità e il cui iter processuale si è concluso da poco tempo. In questi casi prevale l’interesse pubblico a conoscere le notizie. Con questa motivazione di cui al provvedimento del 6 ottobre 2016, il Garante privacy ha dichiarato infondata la richiesta di deindicizzazione di alcuni articoli presentata da un ex consigliere comunale coinvolto in un’indagine per corruzione e truffa.
Una vicenda iniziata nel 2006 e conclusasi (per lui) nel 2012 con sentenza di patteggiamento e pena interamente coperta da indulto. Di fronte al no di Google di accogliere le sue richieste di deindicizzazione, l’ex consigliere aveva presentato un ricorso al Garante chiedendo la rimozione di alcuni url che risultavano digitando il suo nome e cognome nel motore di ricerca e che facevano riaffiorare l’indagine in cui era rimasto coinvolto. A suo dire, non ricoprendo più incarichi pubblici e operando in un settore privato, la permanenza in rete di notizie, risalenti a circa dieci anni prima e ormai prive di interesse, gli avrebbero arrecato un danno all’immagine, alla vita privata e all’attuale attività lavorativa.
Nel rigettare la richiesta, l’Autorità, alla luce delle Linee guida dei Garanti europei, ha rilevato che sebbene il trascorrere del tempo sia la componente essenziale del diritto all’oblio, questo elemento incontra un limite quando le informazioni di cui si chiede la deindicizzazione siano riferite a reati gravi e che hanno destato un forte allarme sociale. Le richieste vanno quindi valutate con minor favore, anche se devono essere analizzate caso per caso.
Nella circostanza specifica nonostante fosse trascorso un certo lasso di tempo dai fatti riportati negli articoli, ha sottolineato l’Autorità, meritava considerazione il fatto che la vicenda giudiziaria si fosse definita solo pochi anni prima. Oltre a ciò, alcuni url riattualizzavano la notizia richiamandola in articoli relativi ad una maxi inchiesta sulla corruzione pubblicati fino al 2015 e la loro relativa attualità dimostra l’interesse ancora vivo e attuale dell’opinione pubblica.
E’ interessante notare come il provvedimento vada (anche se parzialmente e con le dovute differenze del caso) in contrasto con quanto stabilito dal Tribunale di Milano, con la sentenza n. 10374/2016 del 28.09.2016.
Il Tribunale ha stabilito che, indipendentemente dalla portata offensiva di un articolo, se con il trascorrere del tempo i dati personali ivi trattati non risultano più aggiornati e pertinenti, l’interesse pubblico viene meno e deve essere riconosciuto il diritto di ottenere dal motore di ricerca la deindicizzazione del relativo link.
Questa la vicenda: nel 2010 su un quotidiano nazionale era stato pubblicato un articolo che un’alta rappresentante della pubblica amministrazione riteneva lesivo della propria reputazione, in quanto vi si ipotizzava che il suo ruolo fosse dovuto alla raccomandazione di un importante politico e non alle sue qualità. In seguito alla reazione dell’interessata, era stata stipulata una transazione in forza della quale l’articolo era stato rimosso dall’archivio online del quotidiano. Tuttavia, due anni più tardi, il “pezzo” era stato ripubblicato in un blog e compariva tra i primi risultati di una ricerca attraverso Google con il nome della protagonista.
La donna aveva chiesto in primo luogo la rimozione al motore di ricerca, che però l’aveva negata. Della questione, quindi, era stato investito il Garante per la protezione dei dati personali che, tuttavia, aveva dichiarato infondato il ricorso ritenendo insussistente il diritto all’oblio in quanto il fatto riguardava un’importante figura delle istituzioni e le notizie concernevano proprio il ruolo di quest’ultima.
Avverso tale provvedimento l’interessata ha proposto ricorso al giudice civile chiedendo di annullarlo e, per l’effetto, di ordinare al motore di ricerca la deindicizzazione del link e la cancellazione delle tracce digitali di tale ricerca.
Nell’accogliere le domande della ricorrente il Tribunale muove innanzitutto dalla nota sentenza Google Spain, in cui è stato puntualizzato che l’attività del motore di ricerca è qualificabile come trattamento dei dati personali e che dunque, a determinate condizioni, anch’esso è obbligato a rimuovere dall’elenco dei risultati i link che rimandano a contenuti di terzi, qualora non più attuali. L’incidenza e l’invasività delle informazioni veicolate dal motore di ricerca giustificano – prosegue la sentenza – la notevole protezione dell’interessato, il cui diritto a mantenere il controllo sui propri dati fa premio sulla libertà di informazione a meno che le notizie, per il ruolo ricoperto nella vita pubblica dal soggetto, pur non più recenti, abbiano ancora un effettivo rilievo.
Il Tribunale indica i diritti che si “fronteggiano”: da un lato la libertà di iniziativa economica e libertà di informazione e dall’altro la tutela dei dati personali, oltre al diritto dell’individuo alla «dis-associazione del proprio nome da un dato risultato di ricerca» o meglio al «ridimensionamento della propria visibilità telematica» definito come un aspetto “funzionale” del diritto all’identità personale da tenere distinto dal diverso diritto all’oblio.
Alla luce di tali considerazioni il Tribunale conclude in modo opposto rispetto al Garante. Il giudice, infatti, osserva che quelli contenuti nell’articolo sono dati non completi, non aggiornati e non pertinenti. Il giornalista, infatti, riferiva le opinioni di un paio di economisti rese subito dopo il concorso vinto dalla ricorrente e rimaste isolate; nessun elemento circa la poca correttezza del concorso era stato addotto; laddove invece l’interessata aveva provato di avere una profonda professionalità specifica; la donna, inoltre, ricopriva tuttora la importante carica senza che mai più fossero stati esposti dubbi sulle sue competenze e, non ultimo, il “pezzo” era stato cancellato dall’archivio informatico del giornale che l’aveva inizialmente pubblicato.
Dunque, conclude il giudice, anche se i dati sono considerabili in astratto attuali in ragione del ruolo ancor oggi occupato, gli stessi non presentano più interesse pubblico in concreto, con la conseguenza che in tal caso deve prevalere il diritto dell’individuo a non restare legato all’immagine incapace di rappresentarlo correttamente.
In conclusione, seguendo una strada già battuta dalle corti internazionali e nazionali, e comunque la si pensi in materia, la decisione in commento ha il merito di aggiungere un altro tassello nella individuazione del corretto bilanciamento tra diritto all’identità digitale e diritto alla libertà di informare e di essere informati.[:]