La sentenza della Cassazione n. 24431/15 dell’8.06.2015 ha stabilito che un messaggio sulla bacheca di Facebook, a prescindere dal fatto che il profilo sia “chiuso” o meno, ha la capacità potenziale di raggiungere un numero indeterminato di persone ed è per questo motivo che, in caso di diffamazione, scatta l’aggravante.
Con una querela del 2010 una donna separata dal marito lo aveva accusato di aver messo su Facebook post e commenti diffamatori nei suoi confronti, ma il Giudice di Pace aveva dichiarato la propria incompetenza, ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità ed il processo era stato trasmesso al Tribunale di Roma che a sua volta ha trasmesso gli atti alla Corte di Cassazione.
il Giudice di Pace applica soltanto delle multe, il Tribunale può anche infliggere il carcere e, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni.
Il commento offensivo sulla bacheca di Facebook raggiunge un numero indeterminato di persone e quindi scatta l’aggravante: la competenza è del tribunale.
Il profilo privato, benché limitato ai contatti prescelti e non a tutti gli utenti di internet, si deve considerare un posto pubblico o no? La differenza è fondamentale quando si ha a che fare con frasi o commenti che potrebbero ledere l’onore e la reputazione degli altri. Perché, a voler considerare il social network, se non un mezzo di stampa, quantomeno un mezzo di pubblicità, allora scatterebbe una aggravante speciale nel caso di reato di diffamazione.
Secondo la Cassazione non ci sono dubbi: Facebook è una piazza e, come tutte le piazze, di privato c’è davvero poco. Le potenzialità del social network Facebook sono note: a prescindere se usato per diffondere il proprio pensiero, un’attività commerciale o per consumare un reato, è in grado di coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, anche se non individuate nello specifico.
Ed è proprio questa enorme diffusione dei contenuti, unita alla viralità che ne segue, che è suscettibile di procurare il maggior danno alla persona offesa che giustifica, quindi, la pena più severa.
Facebook viene equiparato ad un pubblico comizio e ciò va considerato mezzo di pubblicità, idoneo a provocare una ampia e indiscriminata diffusione della notizia tra un numero indeterminato di persone.
Ora sarà necessario coordinare la norma con la riforma entrata in vigore lo scorso mese sulla depenalizzazione dei reati, compreso quello di diffamazione, se il fatto è considerato lieve (o meglio “tenue“).